Alimenti principali a Conocchielle nel 1° cinquantennio del 1900

L’alimentazione base, con riferimento al primo cinquantennio del Novecento, prevedeva quasi ogni giorno i fagioli, che a pranzo si mischiavano con la pasta fatta in casa, a cena si servivano “a insalata”, conditi con olio crudo, aglio e zafaranpisat , oppure cucinati nelle minestre con svariate verdure (rape, cicoria, scarola, cavolo cappuccio, verza), e/o con le nnugghie. Una minestra comune, preparata nei mesi freddi era cappucci e fasuli, con o senza “scorze”. Sempre d’inverno, e specialmente quando si ammazzava il maiale, si preparava la minestra virda con i cavoli cotti nella pignata, insaporiti con pepe e formaggio, assieme all’osso di prosciutto o alla “scorza” (cotiche). Le fogghie erano le verdure lesse ( rape, cicoria, bietola, scarola) che erano utilizzate nelle varie minestre, ma potevano essere servite anche ad insalata, condite con olio crudo e aglio, oppure sfritte (soffritte) con olio, aglio e pepe rosso ( zafaran’ pisat‘)

L’eccessivo consumo di cappucci di cavolo, la bassa concentrazione di iodio nelle nostre acque, causavano la formazione del gozzo (Gavazzo o Trummo, deriva da struma tiroideo), che colpiva specialmente le donne, Nei cavoli è contenuta una sostanza gozzigena, la goitrina. Se la carenza di iodio si verificava in una donna gravida, c’era il rischio che il bambino nascesse cretino (cretinismo Ipotiroideo)

Ogni mattina , fino alla fine degli anni 40, a casa di nonno Biagio Propato, mia zia Rosina, alle prime luci dell’alba era già al lavoro a preparare la pasta fatta in casa ( rashcatieddi, tappe, maccaruni a firriettu, lagane, tagliatelle, tagliolini, ricchitedde) per circa 15 persone. Negli anni 50 fece la prima comparsa, nelle nostre campagne, una macchinetta azionata da una manovella, che produceva con l’impasto preparato a mano, varie forme di pasta: rigatoni, bucatini, spaghetti, tagliatelle. Fu quella una piccola innovazione tecnologica che contribuì ad alleviare il lavoro manuale delle massaie. Un piatto particolare erano i rashkatieddi ca muddica, in cui la pasta veniva condita con mollica di pane fritta nell’olio aromatizzato con origano ed aglio. Le tappe (quadrucci), le lagane si mischiavano con i fagioli, con i ceci, mentre i rashkatieddi, le orecchiette, le tagliatelle venivano conditi, quasi sempre con sugo di carne o con sugo di soli pomodori e formaggio pecorino grattugiato, ed erano i cibi, particolarmente, della Domenica e delle altre festività. Qualche volta le lagane o le tagliatelle erano cotte nel latte, era questa una pietanza gradita a mio padre, ma detestata dal sottoscritto, a cui il solo odore del latte caldo provocava il vomito

Un tipo particolare di pasta in brodo di carne, servito nel periodo di Carnevale, o nel giorno di Santo Stefano era costituito dal Cicinieddo. Si trattava di un impasto di consistenza dura, fatto di farina, uova, e acqua, grattugiato in piccole particelle, dalla forma simili al semolino, alla stracciatella romana, e servito con brodo di carne di pollo e formaggio.

Il primo piatto a base di pasta poteva essere sostituito da una robusta minestra, dalla polenta, e raramente dal riso: riso in bianco con olio crudo e formaggio , riso e fagioli, riso e verdure. I risotti, le arancine non erano noti nei nostri borghi dell’alta Valle del Frido. Anche la lasagna al forno, i cannelloni, i tortellini, i ravioli, le cotolette, l’arrosto (roast beef), il prosciutto cotto, il prosciutto di Parma, l’amburger, i cibi surgelati, lo zampone, il panettone, la colomba, la panna, il tè… non erano presenti, fino ai primi anni 60, nella nostra tradizione alimentare.

Era quella la vera dieta mediterranea, autarchica e genuina !!! Oggi le modifiche strutturali, economiche, culturali della società, la presenza massiccia dei media nella comunicazione , hanno omologato il mercato ed i gusti, per cui quello che si mangia a Milano, si mangia anche a Conocchielle.

Con l’introduzione nella nostra dieta dei prodotti alimentari del Nord, fecero il loro ingresso nella nostra contrada anche lo spazzolino dei denti, il dentifricio, i detersivi della Mira Lanza che venivano venduti nel negozietto di Nonna Mariantonia, Ricordo che mia zia Iolanda, suscitando stupore in noi tutti, faceva il dentifricio nella fontana pubblica ubicata di fronte alla abitazione di nonno Biagio. In quei lontani anni 60 un camioncino girava per i nostri borghi e pubblicizzava i prodotti della Mira Lanza esposti nel cassone in ripiani trasparenti di vetro. Nel camioncino erano presenti anche dei giocattoli (pallone, magliette, il pupazzetto del pulcino nero Calimero, che pubblicizzava il detersivo AVA) che si potevano avere raccogliendo dei punti , legati all’acquisto dei prodotti. Era quella la prima pubblicità che entrava nelle nostre case. I bambini ed anche gli adulti ammiravano divertiti quel camioncino e lo seguivano a piedi, come in processione, per decine di metri.

La nostalgia per il nostro recente passato ci induce, spesso, al recupero degli usi e dei costumi dei nostri nonni: aumentano i panifici con i forni a legna, le botteghe artigianali che producono pasta fresca con trafile di bronzo , i salumifici che producono salumi, in apparenza, come quelli di un tempo. Il risultato è deprimente perché la cottura del pane nel forno a legno, la produzione di pasta fresca nelle botteghe artigianali, o la produzione di salumi in microaziende locali a conduzione familiare, non portano a prodotti di qualità, perché le materie prime impiegate non nascono dalla nostra terra. Il metodo di lavorazione è antico, ma non è antico il sapore, il profumo, del pane, della pasta e dei salumi prodotti

La farina utilizzata non è prodotta con il nostro grano, che era privo di disserbanti e di altre sostanze chimiche nocive, ma è quella prodotta con i cereali di importazione, contaminati, a volte, da pericolose micotossine.

La carne utilizzata, oggi, per i salami è intrisa di conservanti, di estrogeni, di antibiotici, di cortisonici proviene dalla Germania, dall’Olanda, dall’ Argentina, dai paesi dell’Est….; e non profuma più di zucca, di frutta, di patate, di verdura, di farinaccio, di erba, che erano il cibo dei nostri suini .

I maiali uniti in branchi vivevano, d’estate, all’aria aperta ed erano, quotidianamente, accompagnati da noi ragazzi di allora, al “pascolo” nel Pantano di Cingurano, nelle cui acque acquitrinose si immergevano e sguazzavano, erano bestie “felici” !!!

Ricordo che nella mia infanzia i maiali venivano allevati con il mais – trucchischi – con la iotta (acqua di cottura della pasta e della lavatura dei piatti) del pranzo e della cena, a cui si aggiungevano pugni di farinaccio e patate che erano cotte, assieme alle zucche, agli scarti della verdura, alle pere, ai cavoli, in grossi lantoni ( grossi fusti svuotati dell’ olio industriale o della nafta che contenevano ) appesi alla camastra o poggiati su robusti treppiedi sotto cui ardeva il fuoco, In Autunno avanzato, sempre per i maiali si acquistava la ghianda da Mbirtuccio che proveniva da Francavilla in Sinni, oppure con gli asini e i muli si andava ad acquistarla a Viggianello, a Pedali, a S, Severino, o nelle contrade vicine. Mbirtuccio vendeva , con l’inganno, al posto delle arance, anche i citrangoli, un’ arancia amara il cui nome scientifico è Citrus aurantium

La nostra era una società soprattutto di piccoli agricoltori e pastori e tutto quello che necessitava ad una vita sana e frugale usciva dalla terra. Oggi tutto quello che serve alla famiglia esce dai supermercati; non abbiamo capacità e possibilità di scelta, al contrario, veniamo scelti dal mercato (indagini di mercato) ed indotti a consumare ciò che ci viene presentato e pubblicizzato). Veniamo guidati dall’occhio, restiamo abbagliati dai colori, dalla forma e non dalla genuinità, dai profumi dei prodotti. Una mela campagnola rosicchiata da un vermetto, la carne un po’ dura di un vitellino cresciuto correndo sui nostri prati di montagna, non hanno diritto di domicilio nelle nostre dispense e sulle nostre tavole.

La pitta ducia, era una torta di pan di Spagna a due strati, farcita con crema e ricoperta da naspro e diavoletti, si preparava solo nelle grandi occasioni. Numerosi erano i tipi di biscotti prodotti (viscuotti), sia dolci, che salati

I secondi piatti (una vuccatedda qualsiasi dopo il primo piatto) quando c’erano, erano preparati con cipolle arrostite o fritte, patate, zucca, insalata di lattuga, di pomodori, peperoni, uova, e raramente si completavano con la carne, con le cotiche, con i salami o con i formaggi . La carne, spesso si cucinava di Domenica e nelle altre feste e spesso era carne di animali domestici. Tutti avevano il pollaio, la colombaia, la capretta e/o la pecorella. Il formaggio era un companatico di uso più frequente. Anche i salami, specialmente nelle famiglie numerose, erano consumati con parsimonia. Io ricordo di aver “rubato” ai tempi della scuola media delle sopressate , a casa dei miei genitori, e di essere scappato nell’orto per mangiarle di nascosto. Questo successe, poche volte, quando mamma disattendeva il mio divieto di cucinare “pasta longa” – spaghetti – che io odiavo

Le frittate venivano fatte con le cipolline selvatiche, con la salsiccia, con tutte le verdure, con i fiori di zucca (iuri i cucuzza) e perfino con le foglie di ortiche cotte nell’acqua salata e scolate, e con le tenere cime della vitalba (grampuddine)

I Iuri i cucuzza (fiori di zucca), oltre che a frittata, erano preparati a pitticedde, che erano/sono frittelle fatte con i fiori di zucca passati nella pastella di farina ed acqua, e fritti nell’olio bollente.

l’uovo alla coque ( uovü arrustutü ) era arrostito per qualche minuto davanti alla brace, ed era pronto quando sul guscio trasudava qualche gocciolina di acqua, all’apertura doveva avere l’albume quasi del tutto coagulato, ed il tuorlo cremoso da permettere di intingere delle stecche sottili di mollica di pane attraverso l’ orifizio che si creava man mano che si rimuoveva il guscio: altre volte lo si apriva nel piatto e lo si accompagnava con i zafarani crushki, saltati nell’olio bollente. le uova sode (l’uovu cuottu) erano preparate anche a chi partiva per lavoro, per malattia.

D’inverno le uova scarseggiavano, le galline ovaiole con il freddo andavano a riposo. A primavera inoltrata tutta la natura si svegliava, si scioglievano le nevi sulla Serra del Prete, sul Dolcedorme, sul monte Pollino ; il torrente Fauciglio, il fiume Frido portavano a valle, una impetuosa abbondanza di acqua mista a fango, i loro greti si riempivano di primule e violette, i primi virgulti si affacciavano sugli alberi spogli, le galline ricominciavano a produrre le uova ed a covarle e facevano, così, la comparsa le prime chiocce. Le uova erano per noi una ricchezza, un cibo degli dei, quando mancavano si acquistavano dai vicini, non erano vendute nel negozio di generi alimentari di mia nonna Mariantonia ed in quello di zia Esterina, perchè tutti avevano il pollaio con le galline, si scambiavano anche come baratto con altra merce. Za Rosa a Niculedda, Filisso un venditore ambulante di Voscari prendevano le uova dalle massaie ed in cambio davano aghi, filo, ditali, spille, pettini, “capisciole” (fettuccia, striscia di cotone), “scaraturi“.

Noi ragazzi rubavamo le uova nei pollai e le barattavamo con cioccolate e caramelle, La vittima dei nostri furti era spesso nonna Mariantonia a cui vendevamo le uova delle sue galline in cambio di frufru, momi, nic nac, cannilini, Tom. Mio cugino Osvaldo fu beccato da nonna, accovacciato nel pollaio, mentre cercava di portare via le uova di giornata, si giustificò dicendo che si era nascosto per sfuggire ad una guardia municipale di S. Severino Lucano, di soprannome Saracaro, che lo voleva arrestare.

Currieddi fatti da zia Rosina Propato

L’uovo più ricercato era però, per i bambini, quello sodo presente nei currieddi, che erano e sono dei dolci pasquali cotti al forno, a forma di ciambelle, dal diametro di circa 20 cm, con 3-4-5 uova intere sigillate parzialmente nell’impasto . La cuzzola era fatta con lo stesso impasto di farina, uova, zucchero, lievito e cannella dei currieddi, ma aveva la forma di un bambolotto fasciato, con braccia e piedi incrociati e presentava un uovo intero conficcato parzialmente nella faccia. La Vaccaredda differiva dagli altri due tipi di dolci pasquali perchè aveva la forma di una pagnottella di pane ed era priva dell’uovo sodo.

A Primavera , non solo le galline ricominciavano a fare le uova, anche le rondini compivano il loro lungo viaggio e svolazzavano rumorose sui nostri tetti ; verso sera, al tramonto, ritornava il canto del cucco (cuculo) e quello lugubre della pigula (civetta), che per mia nonna Rosa Fiore era presagio di morte, perché questo uccello sarebbe stato capace di avvertire la presenza di cadaveri a distanze notevoli e dunque di presagire anzitempo la morte imminente degli esseri umani. Anche il tramonto con striature intense giallastre e rossicce era per mia nonna, assieme al canto della civetta (pigula) presagio di morte, un segno che dal cielo raggiungeva gli uomini e comunicava loro la comparsa di eventi funesti.

Tutti noi bambini ascoltavamo incantati nonna Rosa, persona buona, mite e generosa, che pensava di leggere nelle cose della natura, nel canto degli uccelli o nei colori accesi del tramonto del sole il suo futuro e quello della sua famiglia; ci ricordava anche che la sera prima che morisse, durante il parto, zia Angelina Cristiano, una pigula poggiata su un ramo di ciliegio, di fronte alla casa di zio Gennaro, diffuse nell’aria della sera, per ore, il suo pigolio di morte: “pii, pii, pii..”. Il nostro cuore palpitava per la paura e qualche brivido con gocce di sudore freddo, correva lungo la schiena, ma poi , tutto in fretta passava e si ricominciava a giocare.

La civetta nell’antica Grecia non era ritenuta un animale che portava sfortuna, era considerata sacra alla dea Atena, dea della Sapienza, ed ancora oggi è simbolo di portafortuna.

I fagioli freschi con tutto il baccello – “Vajane” – costituivano l’alimento principale di quattro minestre:

  • nella minestra mpastata o riminata le”vajane” venivano schiacciate assieme alle patate, all’aglio ed al pepe rosso sfritti nell’olio ,
  • nella minestra patane e vajane il baccello intero era cucinato assieme alle patate tagliate a pezzetti e cotte nel sugo di pomodori,
  • nella pasta e vajane in brodo vegetale ,il baccello tagliuzzato a pezzetti era cotto con cipolla e/o aglio, olio e pomodori, il tutto veniva aggiunto alla pasta corta cotta a parte in acqua salata, che era parzialmente scolata, la si lasciava un po’ vrudosa.
  • Le “vajane” si abbinavano bene anche alla sostanziosa minestra fatta con l’osso di prosciutto, l’osso era costituito dal gambetto del prosciutto crudo (garrone) e da residui di cotiche e di prosciutto che rimanevano adesi all’osso, dopo aver affettato tutta la polpa . Il gambetto di prosciutto e le cotiche erano bolliti per 2-3 ore e poi erano aggiunti alle vajane già cotte con pomodorini o passata di pomodoro, cipolla e sedano

La zucca fatta a fette veniva cotta con acqua, cipolla, olio, pomodori ed insaporita a fine cottura con una grattata di formaggio pecorino o di ricotta stagionata. La zucca tagliata a spirale veniva essicata d’estate e utilizzata nella preparazione delle minestre nei mesi invernali. Anche la minestra mpastata poteva essere fatta con le patate e con la zucca, specialmente quella rossa, che sostituiva i baccelli delle vaiane.

La polenta (frascatula) fatta con farina di mais (Maria Peluso a Pidalisa la fa anche con farina di grano) sostituiva d’inverno, qualche volta, la pasta; tra fratelli si faceva a gara, a pulire il paiolo dalla polente residua, adesa al fondo ed alle pareti stagnate del recipiente. Con il mais si facevano anche delle focacce che erano cotte sotto la cenere. A fine estate le pannocchie (spiche) erano attese dai bambini, si consumavano cotte nell’acqua salata, oppure arrostite sulla brace.

La carne, specialmente quella bovina, abbondava quando morivano animali per caduta (animale precipitato, ntimpato) da una rupe, da una timpa; allora veniva mangiata in abbondanza e quella avanzata era conservata in gelatina, in salamoia o trasformata, anche nei mesi estivi, in salami. C’era a Mezzana Salice, davanti alla Cappella, una macelleria, di proprietà dei Rubino, che vendeva molta carne di pecora e di capra, e poca carne bovina. A parecchie persone non piaceva la carne bovina, perchè era carne dura di bestie adulte. Mio zio Peppe Faillace non riusciva a mangiarla perchè la “puzza” di quella carne lo disgustava. a Mezzana Salice c’era anche un’altra piccola macelleria, gestita da “zu Cicciu i Ngagnapuddi” (Francesco Dattoli) che macellava e vendeva solo carne caprina ed ovina (agnelli, capretti, bbif’ri, sciabbane, vilagne, pecore e capre stirpe, castrati…..)

A proposito di puzza, ricordo che anche la cottura dei cibi sui fornelli a gas, all’inizio, suscitava qualche perplessità. Mio padre sosteneva che il sapore e l’odore dei cibi venivano alterati dalla cottura su quei fornelli (Pibigas). l’odore, il sapore dei cibi cotti sulla fiamma o sulla brace del legno di faggio, di cerro, di pero, di ciliegio, di salice.. erano ineguagliabili

Maiali, polli, galline, colombi, conigli, tacchini erano allevati e macellati in casa. Anche gli agnelli, i capretti spesso venivano acquistati dal pastore o cresciuti direttamente dai privati. In quasi tutte le famiglie, c’era una capra che veniva munta quotidianamente e partoriva 2-3 caprettini all’anno; qualche volta abortiva spontaneamente ( si fraiava) in seguito, verosimilmente, ad infezione da Brucella abortus . Sulle carni, sul latte non c’era nessun controllo veterinario, la teniosi-cisticercosi, l’echinococcosi, la brucella melitensis, la leisshmaniosi, le salmonelle infettavano molta gente. Una malattia infettiva particolarmente contaggiosa, che colpiva i bovini, gli ovini, i caprini, i suini, era il carbonchio o antrace, che poteva svilupparsi anche nell’uomo

Un uso frequente veniva fatto nella nostra cucina delle frattaglie dei giovani ovini e caprini( fegato, polmone, cuore, testicoli, reni, pezzetti solidi di sangue cotto, budelline, ) tagliate a pezzetti con le quali si preparava un ottimo piatto, il suffritto, cucinato nella casseruola di terracotta con o senza salsa di pomodori, olio o lardo, aglio, e servito come antipasto, come secondo o come primo ed unico piatto..

Il fegato di maiale, tagliato a pezzetti, era salato, pepato ed aromatizzato con una foglia di alloro e con aglio ed avvolto in una retina di zippa ( omento, epiploon) bloccata con rametti di alloro. La cottura era fatta nel “ruoto(teglia circolare), sulla fornacetta, a fuoco lentissimo, oppure era arrostito lentamente sulla “gradigghia”

Mazzacorde fatte da Rosa Maria

Con le budelle e con la trippa degli ovini e dei caprini, specialmente di quelli giovani, si preparavano anche le mazzacorde a forma di involtini, che avevano all’interno, come ripieno, le animelle, un pezzetto di trippa precotta, uno di lardo tagliuzzato con prezzemolo aglio e pepe, ed all’esterno uno o più cordoncini di budelle precotte che erano avvolte a spirale attorno alla trippa stessa. Gli involtini, così formati, erano cotti in acqua bollente per qualche ora e poi si rosolavano con olio o con il grasso che costituiva il fondo di cottura, dopo l’evaporazione dell’acqua. Le Mazzacorde fatte con le budelline dei capretti e degli agnelli erano tenere e potevano essere arrostite anche alla brace, sulla “gradigghia“. Questa pietanza, difficile da preparare, richiedeva molto tempo, ma deliziava il palato in modo sublime.

Il maiale era la ricchezza della casa perché oltre alla carne con la quale si facevano la salsiccia, la sopressata, i prosciutti, i vucculari (guanciali) i capaccuoddi (capicollo), la gelatina, le nnugghie (involtini di cotiche appese al soffitto ad essiccare, oppure conservate nella sugna), il sanguinaccio ( dolce a base di sangue di maiale, latte, cioccolato, canditi e uva passa , che veniva servito come torta, crema, o come insaccato in un pezzo di grossa budella, detta nnoriva, a forma di sopressata, cotta nell’acqua bollente e tagliata a rotelline) forniva anche il lardo e la sugna con i quali si condivano i cibi durante tutto l’anno. l’olio di oliva era merce rara, era presente nelle case di pastori, dei vaccari che d’inverno si trasferivano in marina e ritornavano , poi per l’alpeggio nei nostri borghi, con 1- 2 quintali di olio. Gruppi, specialmente di donne, dalle nostre contrade partivano per la marina di Cammarata, di Corigliano, di Sibari alla fine di Novembre e ritornavano, prima di Natale, con la provvista dell’olio di oliva, sufficiente a soddisfare le esigenze delle rispettive famiglie per tutto l’anno.

Gli altri comperavano l’olio di pessima qualità, e spesso adulterato dai saricinari, che da Saracena (ricordo un certo Luigi) venivano nelle nostre contrade a vendere l’olio. anche barattandolo con prosciutti ed altro salame. Altri nostri concittadini comperavano l’olio direttamente da parenti ed amici che abitavano nella marina di Sibari o di Policoro. Tante persone non potevano permettersi l’olio di oliva, usavano per condire i cibi il lardo, lo strutto o l’olio di semi

Frittuli

Si gioiva quando il maiale, aperto a due metà ed appeso al soffitto tramite una corda che era attaccata alle due estremità appuntite del gammiere ( asse di legno o di ferro che veniva conficcato nei tendini delle zampe posteriori) mostrava di avere molto lardo, il cui spessore veniva misurato con le dita sovrapposte della mano: 4-5 dita (5-7 cm di spessore) di lardo erano un ottimo risultato . La sugna veniva utilizzata anche per conservare nei salaturi ( recipienti di terracotta a forma cilindrica), nei boccacci di vetro, nella vescica e nell’intestino cieco (nnoriva) del maiale, la salsiccia, le braciole (involtini di carne), i frittuluni (pezzetti di carne grassa con la cotica, ricavati dalla pancetta del maiale) , i frittuli (cigoli).

I sauzizzi a saima (salsiccia nella sugna) si conservavano per mesi, fino all’inizio dell’estate quando i Sinnisari ( commercianti ambulanti di frutta e verdura, provenienti da Senise) portavano a Conocchielle, le primizie della stagione; allora, nei mesi di Giugno, Luglio si preparavano le prime fritture fatte con i sauzizzi a saima e con i peperoni di Senise. Che pietanza !!!!! che spettacolo!!!!.

Le sopressate, oltre che nella sugna, si conservavano nel grano stivato nel “cascione“, o nei panieri di vimini appesi alle travi di legno del soffitto.

Il maiale forniva anche le setole che venivano raccolte a mazzetti ed utilizzate dal calzolaio (nonno Biagio, zio Francesco), come punta semirigida, penetrante, montata alla estremità dello spago, del filo, con cui si cucivano a mano, con l’aiuto della lesina, le tomaie sulla suoletta di cuoio e sul cararmato” (strato esterno di gomma cucito sulla suola) della scarpa

Il baccalà era venduto ed acquistato solo nei mesi freddi e specialmente per la Vigilia di Natale, ed era cucinato di rado negli altri giorni dell’anno. Mio padre Nicola mi raccontava che quando lavorava in montagna per il taglio degli alberi, il baccalà non veniva messo in ammollo prima di cucinarlo, ma era consumato a pezzetti, dopo averlo pulito superficialmente dal sale. Questa consuetudine verosimilmente serviva a reintegrare i Sali minerali e specialmente il sodio, che venivano persi copiosamente con il sudore.

Anche i poveri (noi tutti) nella vigilia di Natale consumavano una cena abbondante, fatta principalmente di baccalà, che veniva cucinato al sugo per condire la pasta, oppure preparato a frittelle con farina e acqua, o arrostito sulla graticola o in fine cotto nell’acqua e condito a insalata con olio, aglio, prezzemolo e zafarani crushki. La tradizione prevedeva che nella cena della vigilia di Natale fossero servite nove portate (i novcos‘), inclusi , però, per necessità olio, sale, e pepe.

Cannariculi e sauzizzi a saima

Il giorno 23 Dicembre di ogni anno, a sera ci si riuniva per friggere nell’olio le grispedde (crespelle fatte di pasta lievitata, salata, con o senza pezzettini di alici salate) ed i cannariculi (Impasto di farina, uova e zucchero a forma di croquette di patate con superficie rigata , fritte nell’olio). Dopo la frittura i cannariculi venivano ricoperti da uno strato di zucchero caramellato o da miele. Si faceva dono di questi prodotti natalizi ai nonni, alle persone anziane della famiglia, a chi era nel lutto per la morte di una persona cara

Per la cena dell’antivigilia di Natale tutta la famiglia consumava solo grispedde e cannariculi . Durante la frittura che avveniva in una grossa padella ripiena di olio, poggiata sul treppiedi, su fiamma viva, non si poteva bere; se qualcuno dei presenti trasgrediva il divieto di bere , c’era il rischio, raccontavano i miei nonni ed i miei genitori, che l’olio nella padella si prosciugasse totalmente e scomparisse all’improvviso . Nella mia famiglia c’è tuttora questa usanza, in compagnia di zio Vincenzo Propato e di zia Cristina, ci ritroviamo la sera del 23 Dicembre di ogni anno a casa di mia madre , dove mia sorella Rosa prepara e ci serve grispedde e cannariculi

Grispedde

I formaggi, la ricotta di pecora o di capra erano prodotti con il caglio naturale, ricavato da latte fermentato per settimane nello stomaco del capretto lattante, macellato, ed erano consumati freschi, oppure stagionati; venivano grattugiati, specialmente quelli di pecora, sulla pasta al sugo, nelle minestre, oppure grattugiati e mischiati alla carne, alla mollica di pane, come nelle polpette di pane e salame, chiamate “paddotte”

Le paddotte, pietanza in uso nel periodo di Carnevale, simili ai canederli trentini, cucinate fritte e/o nel sugo, erano/sono polpette fatte con mollica di pane, patate lesse schiacciate, formaggio, uova, pepe, prezzemolo, aglio e pezzetti di sopressata.

I formaggi prodotti con il latte di mucca venivano utilizzati poco, i caciocavalli erano quelli maggiormente venduti, in ogni caso, sebbene il latte fosse di qualità eccellenti, la sua lavorazione era approssimativa e non portava a risultati di qualità.

la stagionatura dei formaggi e della ricotta, oltre che dal pastore, era fatta dalle singole famiglie, che acquistavano i formaggi ancora freschi, di primo sale, contenuti in apposite forme (Fuscedde e gustigni), fatte di corde di giunchi intrecciati. I formaggi erano salati più volte, con sale secco e rivoltati ripetutamente, in seguito venivano poggiati su tavolette di legno sospese al soffitto, in un locale arieggiato, per mezzo di cordicelle o di ferro filato. Dopo 3-4 mesi la stagionatura era completata.

Il pastore vendeva anche il formaggio ciruoso, che era già salato, sformato e semistagionato o il paddaccio (a forma di palla di neve) che erano delle porzioni di tuma asciutta priva di siero, prelevate direttamente dalla cagliata rotta; era/è cioè la pasta del formaggio non ancora salata e stagionata che veniva consumata fresca nello spazio di qualche ora o di qualche giorno.

Uno scarto della produzione del formaggio era il piluso, che era rimosso all’inizio della coagulazione del latte, ed era/è formato da particelle di latte coagulato, non ben filtrato, aggregate ad impurità, come peli ed altro. Il piluso era dato alle galline. il siero veniva dato ai maiali, ai cani

Mio padre, ogni anno, all’inizio dell’estate, comperava una diecina di forme di formaggio fresco o ciruoso, ciascuna dal peso di circa 2 kg, e le stagionava. Un pezzo di formaggio assieme ad un abbondante pezzo di pane costituiva, spesso, il pranzo a sacco del pastore, del boscaiolo, del contadino, dell’operaio

I formaggi migliori erano quelli del mese di Giugno e Luglio, quando l’erba fresca e rigogliosa impregnava il latte di profumi e sapori delicati e persistenti

La ricotta stagionata – ricotta tosta – e grattugiata era usata anche, come prima colazione, sciolta nell’acqua bollente, assieme all’uovo sbattuto. Mia madre spesso nella mia infanzia mi preparava questa specie di stracciatella alla ricotta ed io la bevevo con gusto, oppure mi abbrustoliva una fetta di pane, chiamata ruscedda (bruschetta), su cui faceva cadere dell’olio d’oliva o vi spalmava un po’ di lardo raschiato con un coltello da una cotica.

le fette di pane venivano anche condite, e mangiate dai ragazzi, con uno strato di ricotta fresca, zuccherata o con gocce di olio e sale o acqua e zucchero. D’estate, sulle fette di pane si strisciavano anche i pomodori che erano tagliuzzati a pezzettini e conditi con sale e olio. Quelle fette di pane erano, spesso, la nostra colazione o la nostra merenda, al pane si aggiungeva quotidianamente la frutta che veniva raccolta direttamente sugli alberi, con o senza il permesso del proprietario dell’orto. Le giliege, specialmente le primizie, erano particolarmente desiderate dai ragazzi, che ingaggiavano una vera sfida con i proprietari della piante che cercavano di impedirne il “furto” con ogni mezzo : si legavano alla pianta cespugli spinosi, filo spinato per bloccare il passaggio dal fusto alla chioma, si faceva la guardia al ciliegio nelle ore notturne, che erano quelle più a rischio. Le primizie del ciliegio maturavano sempre, verso la fine del mese di Giugno in località Macchi i Vracchi nell’orto di za Rosa a Muzzichenta, in via Gallicchi nell’orto del Diavolombosco (Rubino Giuseppe) o in quello del Monaco (Milano) in via Cammaruozz……

La colazione, nei mesi estivi, quando le greggi a Conocchielle erano numerose, era fatta, di tanto in tanto, con pane spezzettato nella ricotta contenuta nel siero ancora caldo (mbanata o mbanatedda), che il pastore offriva gratuitamente ad amici e parenti. La mbanata aveva odore e sapore forti che, sebbene fossero genuini, non da tutti erano ricercati e preferiti.

Un formaggio particolare era quello Quagghino, che era mangiato da poche persone, e veniva fuori da una errata e non uniforme distribuzione del caglio all’interno della cagliata. Alcune forme di pecorino diventavano in parte o totalmente abitate da piccoli vermi, larve che si muovevano e saltellavano all’interno della pezza i cas che perdeva la durezza e la compattezza proprie della stagionatura e diventava di consistenza cremosa, là dove brulicavano i vermiciattoli, che somigliavano a piccole larve. Gli stimatori di questo formaggio lo mangiavano con un cucchiaio, tramite il quale portavano in bocca vermi e formaggio. (leggere nel dizionario di Conocchielle)

Il pane era fatto in casa nel forno a legna, ogni 7-10 giorni si faceva una sckanata ( impasto) di pane, s’impastava la farina locale nella mattra (madia) con lievito naturale (livato), acqua, sale, e patate. La lievitazione dell’impasto durava 4-5 ore ed avveniva in un ambiente con temperatura mite e con panni pesanti di tessuto posti sopra la mattra. Le panelle venivano sfornate dopo 2-3 ore e conservate nella cascia, nel minestraturo. Oltre al pane si sfornavano le focacce (pitta ianca), le pizze al pomodoro, con i peperoni, con i frittuli (cigoli), con le patate, i cauzuni chi vete (panzerotti con la bietola soffritta). La consuetudine di fare il pane in casa, si estinse gradualmente alla fine degli anni 60. Solo poche famiglie continuarono, negli anni 70, a produrre il pane nel proprio forno a legno. La panetteria artigianale gestita da “Rusina du Mulino“, e dai suoi genitori, ubicata nel vecchio Mulino Iannarelli di Mezzana, era l’unico forno a legna dove si poteva comperare il pane.

La cottura al forno a legna veniva utlizzata, d’estate, dopo aver sfornato il pane, per sterilizzare le bottiglie ed i boccacci di vetro riempiti di salsa o di pomodori pelati preparati in casa e per completare l’essiccazione dei zafarani crushki

Il forno serviva anche per cuocere la carne di pecora o di capra, che era posta sulle graticole o su contenitori metallici (ruoti) ed infornata. Si trattava, in genere, di animali vecchi , stirpi (sterili) o di carne mortacina ( femmine di pecora o di capra morte di parto, animali incornati, incidentati..) Spesso questa carne mburnata veniva consumata in gruppo, con amici o parenti ed era una occasione di festa, di risate, di allegria.

Quando il pane si induriva molto, veniva utilizzato per il pan’cuottü, fatto con fette di pane bagnate in acqua bollente aromatizzata ed insaporita con “zafaran’ russ’” (Pepe rosso in polvere), cipolla, prezzemolo, sale, olio o strutto e pulijü (pulegio), si aggiungevano, quando c’erano, anche le uova. Alcune volte le panelle che venivano mangiate per ultime, specialmente se l’ambiente era umido, formavano una muffa di colore verde che veniva asportata assieme al pezzettino di pane contaminato dai funghi (panmucat ‘). Mia madre, non di rado aggiungeva all’acqua del pan’cuott il cervello, di maiale, di agnello, di vitello; era quella un’aggiunta che arricchiva una pietanza povera.