‘U mmitu di ziti nell ‘aia dei “Caioni” in via Rauta
Conocchielle, 25 Giugno 1972, “Aria” di via Rauta
In questa “aria” ( aia) ubicata in c/da Rauta tra le pagghiere, le case dei fratelli Vincenzo ed Agostino Ciminelli “Caioni” e quelle dei fratelli Faillace Gennaro e Giovanni, si tenevano anche i banchetti nuziali (MMITI), curati e pagati dallo sposo, a base di carne di pecora, soffritto di frattaglie e pasta di ziti.
Le posate, i piatti utilizzati durante il banchetto, i bicchieri erano prestati dai familiari e dai vicini di casa. Tutta la comunità partecipava alla buona riuscita del pranzo di nozze. Per identificare le propie posate alla fine del banchetto, ognuno, prima di darle in prestito, vi scalfiva con un chiodo o con un altro punteruolo un segno particolare: una lettera, una linea, una x….
Alla fine degli anni sessanta, il pranzo nuziale, a base di carne di pecora o di vitello, era ritenuto demodé e venne sostituito gradualmente da dolci freschi o secchi, accompagnati da bicchierini di liquori, spesso fatti in casa, che venivano serviti agli invitati, in attesa all’impièdi davanti alla casa degli sposi. Fu così il matrimonio di mio zio Mario con zia Santina, ricordo però che a sera tutti noi familiari cenammo con gli sposi
Mio zio Beniamino, fece il banchetto di matrimonio (u mmitu), con mortadella, provolone, pane e vino. I tavoli furono allestiti in c/da Frida nell’orto antistante alla casa paterna, in mezzo ai pioppi, ai peri, sotto il pergolato. Testimoni di nozze furono i mie genitori.
Ricordo anche che la prima pasta al forno ad un pranzo nuziale venne servita nella festa di matrimonio del maestro elementare Peppino Viceconte “Carcazanchi” e di Carmela “Massaredda” di Varco. Gradualmente La pasta lunga cannulata, robusta e gentile dei ZITI cedette il passo, dopo anni di dominio assoluto sulle tavole degli sposi, ad altri piatti preparati con formati diversi di pasta.
La settimana prima del matrimonio si “portavano i Panni“, in pratica si trasferiva il corredo della sposa nella nuova dimora, dove si preparava il letto matrimoniale con i capi più lavorati e più pregiati del corredo. Alla sposa era fatto divieto di recarsi nella nuova abitazione, fino al giorno del matrimonio. I genitori, i parenti più intimi, regalavano somme di denaro che erano poggiate sul letto degli sposi e fornivano la dispensa di derrate alimentari necessarie per la “settimana della zita” .
I panni, prima del loro spostamento, erano esposti e visitati da parenti ed amici, e tutti potevano ammirare e commentare la bellezza e la quantità degli elementi di quel corredo. Era usanza che lo sposo portasse in dote la casa, e la sposa il corredo, che era costituito da coperte, “muttita“, lenzuola di makò, federe, tovaglie di lino, asciugamani, biancheria intima, utensili per la casa.
la Muttita o trapunta preparata e cucita c/o la bottega del “Lanaro” di S. Severino Lucano era una pesante coperta invernale imbottita di lana di pecora cardata a mano. Le lenzuola , gli asciugamani , le tovaglie erano spesso impreziositi da ricami fatti a mano. Il numero delle coperte, delle lenzuola variava in rapporto alla ricchezza della sposa. Una ragazza con una dote povera faticava di più a trovare marito. La dote abolita per legge nel 1975 era un insieme di beni, tra cui denaro, terreni, case che la moglie portava al marito come un contributo agli oneri del matrimonio.
Per il banchetto nuziale si allestivano nell’ “aria” dei lunghi ripiani di tavole su cui si consumava il pranzo ed altri ripiani di tavole, più bassi, su cui si sedevano gli invitati e gli sposi. Mio padre Nicola Propato, mio zio Gennaro, Zio Iacolo, Zu Ntonio Fiore erano, spesso, i cuochi che prestavano la loro opera gratuitamente, assieme ai familiari degli sposi, in questi “mmiti”. Il 25 Giugno del 1972 si sposò nell’aia dei “Caioni” mio zio Carmine Faillace; Mario Cimelli e Giovanni Gallicchio si sposarono nel mese di Agosto dello stesso anno.
I notabili della zona: il dr. Carmine De Salvo, medico condotto, Francesco Ponzo (Cicciu Ponzu) ufficiale di stato Civile, il parroco Don Carmelo Poselli ed altri erano spesso ospiti in queste feste ed occupavano i posti migliori, che erano quelli collocati all’ombra di due piante di “grumi” (prugni) e di un pioppo, che delimitavano, dal lato dei Caioni, l’aia.
Si macellavano, in genere, 5–6–7 pecore, la cui carne veniva stufata per ore in grossi paioli (caudare) di rame che avevano la superficie interna rivestita da uno strato di stagno.
I cosciotti di pecora spesso venivano farciti con pezzetti di lardo, aglio, e prezzemolo, ed erano rosolati e poi stufati per 4-5 ore con salsa di pomodoro ed aromi. Le altre parti della pecora erano utilizzate per il ragù. Con il sugo del ragù e con il formaggio pecorino grattugiato si condivano i “Ziti” che erano dei i maccheroni che costituivano il primo piatto.
Con il fegato, i polmoni, il cuore tagliati a pezzetti si preparava il “suffritto“in umido, che veniva servito come antipasto; con le budelle, e la trippa si preparavano le “mazzacorde “che erano servite dopo lo spezzatino e dopo i cosciotti di pecora al sugo. Il vino consumato in grandi quantità, la frutta ed i dolci preparati in casa completavano u mmit’ di ziti. Ai cuochi, si regalavano gli avanzi non serviti di carne. Mio padre rientrava a sera tardi, spesso, con qualche cosciotto di pecora. L’opera dei nostri cuochi era richiesta anche da amici e conoscenti di altre contrade.
Il matrimonio si celebrava nella chiesetta della Madonna del Carmine di Varco, i canti della messa erano eseguiti da Giuseppe De Paola alias “Pilot‘”, che si accompagnva con l’armonium a mantice collocato sul lato sx dell’altare. Gli uomini si posizionavano in fondo alla chiesa ed erano spettatori passivi della funzione religiosa, le donne con o senza “viletta” pregavano e cantavano assieme al celebrante. Gli sposi e gli invitati percorrevano a piedi il tratto di strada – 1 km circa – che portava alla frazione Varco. Amici e parenti versavano sugli sposi, in segno di buon augurio, all’uscita dalla chiesa, e durante il corteo matrimoniale, vassoi (vantier) colmi di petali di fiori, “cannilini“, monetine e riso. I bambini si contendevano con spintoni, tra le gambe degli invitati, le monetine che finivano al suolo.
Dopo il matrimonio, che si celebrava quasi sempre di Domenica, gli sposi si ritiravano per una settimana (Settimana da Zita) nella propria dimora. All’ottavo giorno (ncapu l’ott) facevano la loro prima uscita pubblica, si mostravano alla comunità indossando un abito elegante cucito per quella occasione , ci si recava a messa e poi si consumava il pranzo a casa dei genitori di lui. Gli sposi in quella settimana di ritiro vivevano nella propria casa da soli, consumavano il matrimonio senza invadenza di amici e parenti ed approfondivano la conoscenza reciproca.
I pasti erano preparati dagli sposi, qualche volta venivano portati dai genitori e non di rado gli sposi, di sera, con l’aiuto delle tenebre andavano a cena dai loro familiari. Nella settimana della zita parenti e amici erano ricevuti solo per consegnare i regali.
La suocera, raccontavano i miei nonni , poteva recarsi a casa degli sposi per controllare il lenzuolo della prima notte, che veniva steso all’esterno e reso visibile a tutti, e verificare la presenza o l’assenza nel letto matrimoniale della prova ematica della illibatezza della sposa.
La gestione familiare del banchetto di nozze, si estinse definitivamente negli anni settanta. Il Ristorante si sostituì gradualmente alla famiglia ed ai volenterosi cuochi che per amicizia regalavano due-tre giornate di duro lavoro, a parenti ed amici, nell’allestimento del pranzo nuziale.
Quel cambiamento fu favorito dal miglioramento delle condizioni economiche ed anche dalla scomparsa graduale dei pastori e dei bovari. Il mondo contadino e pastorale, con i suoi usi e costumi cedeva il passo gradualmente e mestamente al “nuovo” che avanzava.
Le nostre campagne, negli anni sessanta e settanta si spopolarono, i nostri pastori, i nostri contadini, i nostri braccianti divennero gli operai dell’edilizia, dell’industria del nord Italia, della Svizzera, della Germania. Le rimesse degli emigrati fecero da freno, per anni allo spopolamento, e permisero la permanenza delle loro famiglie nelle nostre contrade.
Di quel mondo antico non resta che la malinconia, i ricordi e qualche fotografia.