Conocchielle: il ciclo del grano, la transumanza
Il grano era seminato a fine Ottobre, e nei primi giorni di Novembre, quando l’autunno inoltrato, diffondeva per le vie l’odore dolce del mosto appena fatto, e le prime brume arricciavano i capelli ed immalinconivano l’animo di noi ragazzi, perché tanti amici e compagni di gioco, figli di pastori, prima che le nevi imbiancassero le vette del Pollino, ci lasciavano, con il cuore gonfio di tristezza e di malinconia, per andare a svernare in marina, nella piana di Sibari o di Policoro
L’autunno era il tempo della transumanza che portava in Calabria, attraverso la Scala di Gaudolino , centinaia di persone e migliaia di capi di bestiame.
Il viaggio era difficoltoso, durava due giorni ed una notte, si dormiva all’addiaccio, ed impegnava di giorno e di notte i pastori ed i bovari, nella guardia dei loro animali, che spesso venivano aggrediti dai lupi.
Le famiglie dei pastori – donne, vecchi e bambini-con le masserizie e gli animali domestici- galline, maiali- facevano il trasloco con un camion
Per giorni sulle nostre strade sterrate, passavano quasi ininterrottamente decine di mandrie d’animali bovini, ovini e caprini, protette da splendidi e poderosi cani meticci, simili ai cani maremmani, dal pelo lungo bianco o colorato, e dalla grossa stazza.
Ai cani veniva applicata al collo la fergia, un grosso collare metallico bordato da numerose punte metalliche che proteggevano l’animale dall’attacco dei lupi.
Le greggi erano precedute dal pastore e dal manzo[1] che, con il suono del suo campanaccio sospeso al collo tramite un collare di legno, faceva da guida alle pecore e sfilava davanti a tutti, con autorità, lasciando per strada un intenso fetore.
Il viaggio era allietato dal belato degli agnelli e dei capretti, nati lungo il tratturo. Gli agnellini riuscivano ad essere parzialmente autonomi nei movimenti, fin dalle prime ore di vita e seguivano il gregge.
I capretti, erano impacciati nei movimenti, per cui erano sistemati nei cofani sui somari, assieme alle masserizie legate al centro del basto, oppure, erano portati penzoloni, con il cordone ombelicale sporco di sangue e strisciante per terra, dalle robuste mani del pastore che indossava il piddizzone[2], una specie di pesante e grezzo soprabito e calzava i nanticàuzi[3], confezionati con il vello della capra o della pecora.
Il passaggio dei bovini era molto più rumoroso di quello delle greggi, a causa dei fragorosi muggiti che uscivano dalle loro bocche bavose e dalle narici ansimanti, e degli enormi campanacci che portavano attaccati al collo tramite il cuddaro[4]; si spingevano di spalle e di frequente le staccionate degli orti, cedevano al loro transito, là dove la strada si restringeva.
La polvere si sollevava copiosa ed avvolgeva la mandria, rendendo indistinguibili le bestie.
I gualani[5], in Autunno, prima di lasciare con le mandrie il paese natio, aravano, per giorni con i buoi, il terreno per seminare il grano, le zone seminative erano dislocate su tutto il territorio della nostra contrada; c’erano quelle situate nei paraggi dell’abitato, come la zona del Vignale, di Capitunno, della Funtanedda, di Iumari, di Vene; altre lontane, nella fascia pedemontana, che superava la quota di 1100-1200 m, come la piana di Acquafredda (1275 m), del Franciuosso , di Grutta a Cupia, l’altopiano del Timpone e del Palummaro, il pianoro di Fuossi i Norri.
A quote inferiori intorno ai 1000-1100 m si trovavano i terreni seminativi di Chiano Acquara, Pantano di Cingurano, Mpronta a Grutta, Cuozzi i Sparti.
Sulla sponda Ovest del torrente Fauciglio il grano veniva seminato in località Murge, Timparedde Russe, Ncinciaredde Calanchi e Destre.
I buoi, possenti e miti venivano aggiogati a coppia con lo iuvo[6], a cui si attaccava il timone[7] dell’aratro di legno[8], la cui punta veniva ricoperta dal vomere, lama di ferro che tagliava in senso orizzontale la zolla di terra da rovesciare. Due alette di legno divergenti poste in prossimità della punta dell’aratro, ribaltavano lateralmente la zolla.
L’Aratura era una pratica agricola faticosa per il gualano e per le bestie che, non avvezze al lavoro duro dei campi, tiravano con difficoltà l’aratro ed era necessario pungolarle con un lungo bastone acuminato o con punta di ferro[9], a volte nelle narici delle bestie più ribelli si metteva la nascarola, una specie di pinza a due branche, collegata ad una corda che il gualano tendeva con le mani quando doveva far cambiare direzione ai buoi. il paricchio era una pariglia di buoi robusti tenuti assieme dal giogo, anche il cavallo o l’asino venivano utilizzati a tirare l’aratro tramite il pettorale, una grossa fettuccia di cuoio che circondava anteriormente il petto dell’animale, ed a cui veniva fissato l’aratro con una doppia catena.
A mezzogiorno si consumava il pranzo che era portato da casa dalla massaia in una cesta di vimini o di canne, ricoperta dal misalo[10]: un pezzo di stoffa di cotone utilizzato come tovaglia da tavola e poggiato per terra, su cui veniva servito e consumato il pasto a base di pasta o minestre, salami e frittate.
Il secondo, quando c’era, poteva essere di carne di pecora, di capra, di coniglio o di pollo. La carne vaccina, in genere non era macellata neanche nell’ambito domestico, veniva consumata solo in caso di precipitazione di un bovino, allora, veniva trasformata anche in salumi ed in gelatina.
Si beveva il vino rosso, spesso torbido e di scadente qualità, di sapore piatto e acquoso, o di spunto[11] o di agrodolce[12], dall’aspetto simile ad una cagliata, perchè sovente era contaminato dallo iuro[13], che galleggiva sul vino ed aderiva al bicchiere adornandone le pareti a mo’ di minute infiorescenze bianche di sambuco. Il vino era scadente perché l’uva non maturava al punto giusto, a causa dell’altitudine, la bassa concentrazione di zuccheri, presente negli acini, dava un vino con bassa gradazione alcolica
Il gusto dei bevitori era grossolano, per cui al loro palato quella feccia solforosa acidula o acquosa, sembrava un nettare. L’acqua era tenuta al fresco dentro un recipiente di coccio, detto gummüla o tarantino.
Era compito dei bambini tenere sempre piena di acqua la gummola.
Dopo l’aratura si seminava il grano a spaglio, portato a spalla nelle bisacce di tela, era preso con il pugno della mano e sparso in maniera più o meno uniforme sul terreno, che era interrotto da solchi comunicanti tra loro, utili al drenaggio dell’acqua piovana.
Al termine dell’estate di San Martino, i lavori erano tutti ultimati, tornava il silenzio nei campi e regnava incontrastato per mesi, interrotto solo dalle gelide folate di vento, e dagli scrosci frequenti e violenti della pioggia.
La neve che cadeva abbondante proteggeva dal ghiaccio, nel lungo inverno di montagna, il germoglio che timidamente si affacciava alla luce.
Gli uccelli granivori erano tenuti lontano dal seminato, su delega del contadino, dallo spaventapasseri, un buffo fantoccio di stracci imbottiti di paglia, issato su una pertica posta al centro del campo, e minaccioso con i suoi arti secchi e lunghi, coperti da cenci colorati, agitati dal vento.
Mostrava un faccione ovale dai contorni imprecisati, che s’intravedeva sotto un cappellaccio bucherellato, ed imbracciava un bastone a mo’ di fucile, da cui non partiva mai un colpo.
Nei mesi di Aprile e di Maggio, quando i lavùri[14] diventavano un gran tappeto verde, gruppi di donne mmunnàvano[15] il grano, privandolo dalle erbacce. Dopo la festa delle Palme, si mettevano in mezzo ai lavuri, rametti di ulivo benedetto, per preservare il grano da avversità meteorologiche e come buon auspicio di un raccolto abbondante.
La palma non preservava, però, il grano dalle insidie umane, in quanto a primavera molte persone che andavano in giro per le campagne alla ricerca delle cipuddine[16], non esitavano a scavarle, di nascosto, nei soffici campi di frumento.
Passato il solstizio d’estate, nei giorni più lunghi dell’anno, le messi, un mare di bionde setole pelose che ondeggiava al solleone, si preparavano alla mietitura che avveniva, in genere, negli ultimi giorni di Luglio.
La Mietitura e la Trebbiatura coinvolgevano tutte le persone della famiglia ed anche i vicini di casa, con i quali si faceva la ritenna[17], che al di là dell’aiuto reciproco, utile per abbreviare i tempi del lavoro, costituiva nella condivisione collettiva di quell’impegno, un importante momento di socializzazione, durante il quale venivano rinsaldati sodalizi, vincoli di parentele, e superati vecchi rancori, in una dimostrazione di solidarietà e di reciproco aiuto che in passato contraddistingueva la vita sociale delle famiglie contadine.
Abili mietitori professionisti, provenienti dai paesi vicini arrivavano a frotte e contrattavano con il massaro[18] la paga giornaliera, che comprendeva sempre il vitto. I mietitori, muniti di falce, incominciavano il loro lavoro alle prime luci dell’alba. Indossavano la vantera[19] ed i cannieddi[20] per proteggere il corpo e le dita da tagli accidentali.
Sulla testa, per difendersi dal sole, portavano la paglietta, cappello di paglia per uomo, con tesa e cupola semirigida, spesso sfibrato e macchiato dal sudore che grondava dalla fronte e bagnava la camicia. Dopo il taglio, le spighe di grano, legate con lo stelo d’altre spighe, formavano un fascio dalla lunghezza di circa70 cm, stretto nel palmo di una mano, chiamato iermitü, che veniva poggiato sulla stoppia.
Alla fine della giornata più iermiti erano legati assieme per formare un fascio più grosso: la gregna[21]. Le gregne venivano accatastate l’una sull’altra, nelle ore più fresche della giornata, per evitare la dispersione dei chicchi di grano, e formavano un muro provvisorio di spighe, il cavagghione.
Ultimata la mietitura, le gregne, per proteggerle dai violenti temporali estivi, erano disposte circolarmente a formare il mitone[22], un cumulo a forma di cono, alto e largo circa 3mx3 che restava per giorni nella carmata[23], in attesa del trasporto sull’aria[24], che veniva effettuato con i cancieddi[25] montati sul basto di asini, muli e cavalli.
Nel mitone le spighe erano rivolte verso l’interno in modo circolare fino ad una certa altezza; nella parte superiore, gradualmente, il cono era fatto disponendo le gregne molto inclinate, quasi in verticale, in modo da far scivolare l’acqua in caso di pioggia, sull’apice del mitone si posizionavano delle felci o dei pezzi di teloni di plastica, per una ulteriore protezione dall’intemperie e dagli uccelli
Nella carmata si spigolavano le spighe del grano rimaste sul terreno, quelle con lo stelo si legavano a mazzetti, quelle senza erano messe in un sacco. La spigolatura nella guerra del 40 e nell’immediato dopoguerra veniva fatta anche dagli sfollati dei paesi vicini e delle città, che abbandonavano le case ridotte in macerie dalle bombe, e vivevano raccogliendo le spighe rimaste nelle carmate. (Lucia a sfullata a Viggianello)
Dopo la mietitura si preparava nell’aia il posto dove il gualano o il contadino avrebbero formato i mitoni, si tagliava l’erba con la zappa, e si puliva il terreno con le scope di sparto[26].
Al grigiore autunnale della semina, si opponeva il rito gioioso, sebbene faticoso, della Pisatura [27]. L’aia era sempre affollata di gente nel periodo della trebbiatura, si aspettava con ansia per giorni il proprio turno.
Un lavoro così duro si trasformava in una occasione di festa e dunque di incontro. Sull’aia si raccoglievano amici, familiari, parenti del massaro, del contadino, ed altre persone del rione, che a metà giornata consumavano il pranzo portato nella cista dalla massaia.
Si gustavano i sauzizzi fritti nella sugna con peperoni verdi, le patate fritte con peperoni, il vuccularo[28 ], il capaccuoddu[29], le siprissate[30], i pomodori ad insalata, le minestre, la ciambotta[31] ed altro.
La piccola pera tinniredda, gustosa e profumata, i grumi[32], i piruni (susine) concludevano il pranzo. Trebbiavano prima i massari, che in genere erano i proprietari dell’aia, e poi tutti gli altri. Le aie più note ed affollate erano quella dei Tornaiali, dei Caioni in via Rauta, quella dei Ciccilli in prossimità della cantina, quella dei Pidalisi, dei Carcazanchi in via Cammaruozzi, quella dei Monti, di Capisci in località Funtanedda, ubicata fuori dal centro abitato, a circa un chilometro da via Gallicchio, verso la montagna.
Le spighe per essere pisate, venivano stese sull’aia, dopo aver sfasciato la gregna e frantumate da una grossa pietra trascinata da una pariglia di buoi aggiogati o da un cavallo a cui veniva collocata sul petto una grossa fascia di cuoio (pettorale), che veniva utilizzata per agganciare la grossa pietra tramite due catene che correvano ai due lati del cavallo
Gli animali si facevano muovere in cerchio, invertendo di tanto in tanto il verso. Spesso sporcavano con il loro sterco le spighe, che erano prontamente gettate fuori dell’aia con una forca dal contadino, che badava, anche, a rivoltarle sotto il passo degli animali.
Tutta la pisata veniva rivoltata completamente con le forche più di una volta. In quelle pause i buoi si riposavano sotto la canicola e continuavano a ruminare, agitando le grosse labbra bavose.
Noi ragazzi saltavamo, ruzzolavamo sulle spighe, e facevamo a gara a condurre le bestie sull’aia, ma spesso perdevamo il controllo del paricchio[33] che si allontanava dal letto di spighe, specialmente, quando s’invertiva la direzione del giro.
Erano quelli momenti di difficoltà, che erano risolti prontamente dal gualano che riportava le bestie di nuovo al centro dell’aia a trascinare la pietra, sulla quale, spesso, salivamo e venivamo trasportati, sorreggendoci con il palmo delle mani poggiate sul dorso del “paricchio”
Finita la pisatura si passava alla Allimpidatura (Ventilazione) ed alla cernitura, il grano era allimpidato, ovverosia, sollevato in aria controvento con forche di legno e finiva a terra, diviso nei suoi elementi: paglia e pula da una parte e chicco di grano, più pesante, dall’altra.
I contadini si mettevano in testa per proteggersi dalla polvere, a mo’ di cappello, sacchi di iuta affossati ad un angolo.
Il solco che separava il grano dalla paglia, si chiamava stagghio. Nelle afose giornate estive, spesso non c’era un filo di vento per allimpidare, perciò si copriva il grano pisato sull’aia con teloni e si aspettava che il tempo cambiasse.
Seguiva all’ allimpidatura la Cernitura. Il grano era setacciato con un setaccio a maglie larghe detto cirnicchio, che separava il chicco dalla pula, ma non da tutte le semenze infestanti. Infine, veniva trasportato a casa con sacchi di iuta che erano svuotati in grosse cassapanche di legno dette cascioni.
La cernitura era affidata alla bravura delle donne che, con gesti armoniosi e sensuali movimentavano involontariamente il seno, e separavano il grano dalle scagghie[34]. I movimenti che bisognava trasmettere al cirnicchio erano due: L’arruòtula e la sautarèdda.
Il primo era solo circolare verso dx o verso sx, il secondo movimento era doppio, e difficile da eseguire, ma molto efficace a separere il chicco di grano dalle scagghie, perchè trasmetteva al cirnicchio piccoli salti dal basso verso alto ed in contemporanea lo faceva girare.
La paglia rimasta nell’aia era trasportata con teloni e lenzuoli legati ai quattro angoli, nei pagliai, dove veniva ammassata con le forche e con l’aiuto dei ragazzi che saltavano e si divertivano, facendo tuffi in un mare di pula e di paglia.
Anche questo lavoro era fatto dalle donne che si caricavano quei voluminosi e pesanti fardelli sulla testa. Sull’aia restava u puco che prima di essere portato nella stalla, e messo per terra sotto le bestie, veniva allimpidato con pale di legno a forma rettangolare per recuperare il grano residuo; si trattava di un miscuglio di residui di paglia e di pula con qualche chicco di grano.
La prima notte dopo la raccolta della paglia, il capofamiglia, la moglie ed i figli dormivano nella pagghiera. Il mio amico Luigi Oliveto di Torno di Viggianello mi riferisce che suo padre rispettava questa consuetudine. Era questa una forma di ius primae noctis che il grano esercitava sulla famiglia contadina.
La paglia che aveva ospitato nel suo “grembo” per mesi il grano era riverita e rispettata. Il grano per gli uomini, per gli animali era la vita, ed in forma di ossequioso rispetto, la famiglia contadina trascorreva la notte della trebbiatura nella pagghiera, come ringraziamento all’umile chicco di grano che rendeva possibile la sopravvivenza della comunità e delle sue bestie.
Con questo rito, inteso come una forma d’abbraccio tra gli uomini ed il grano si esprimeva anche la gioia per l’abbondanza del raccolto e la serenità di chi, stoccato il quantitativo necessario di frumento , poteva anche riposare e non temere le difficoltà che il lungo e rigido inverno avrebbe portato; le immancabili nevicate con il ghiaccio che ti entrava nelle ossa, i violenti temporali accompagnati da venti di tramontana non creavano più apprensioni perché il grano era ormai al sicuro e la vita poteva continuare per l’uomo e per le sue bestie .
Il frumento, prima della sua trasformazione in farina, doveva essere setacciato di nuovo per separarlo dai semi neri della vizza[35] da quelli del sciuogghiu[36], dell’avena selvatica, dell’agghiuolo[37]e dal tizzone[38].
Il tizzone determinava l’annerimento del chicco di grano, che essendo più leggero di quello sano galleggiava sull’acqua usata per lavarlo. Il pane fatto con la farina contaminata dal tizzone era immangiabile, di colorito nero e puzzava. Il sciuogghiu era un buon seme per le galline e per i maiali, il massaro lo regalava alle persone che in cambio lo aiutavano a tagliare le gregne entro cui i semi si trovavano; nell’uomo provocava sonnolenza, nausea, vomito, diarrea, cefalea.
Il lavoro di cernita nei primi anni 60 era fatto non più a mano, ma da un rumoroso svecciatoio, che era un crivo meccanico[39] a forma di cilindro, montato orizzontalmente su un supporto d’assi di legno bullonato ed azionato da una manovella collegata ad una ruota dentata.
Era quello l’inizio di un timido cambiamento che, per la prima volta, entrava nelle nostre campagne, ed anticipava il progresso tecnologico che avrebbe modificato per sempre negli anni a venire, nel bene e nel male, il modo di lavorare e di pensare della gente.
La novità era stata accolta con entusiasmo e con curiosità; il rumore prodotto dalla ruota dentata che azionava i cilindri, sebbene fosse irritante, sembrava musica agli orecchi vergini della gente di campagna, ed attirava i curiosi. Si trattava di una macchina pulitrice che separava il grano dalla pula, dalla polvere e da altri semi.
Aveva in alto una tramoggia nella quale si versavano i chicchi; due crivelli, sottostanti la tramoggia, facevano una prima e grossolana cernita del grano dai residui di paglia.
Dai due setacci i semi arrivavano per caduta in tre cilindri orizzontali forati, posti in basso l’uno di seguito all’altro, con fori di varia grandezza, che determinavano la progressiva separazione del chicco di grano dagli altri semi, man mano che la macchina girava azionata dalla manovella.
L’ultimo cilindro era ripulito dalle impurità da due piccoli rulli di legno, posti sulla sua superficie esterna. Il trasporto della macchina agricola di casa in casa, di contrada in contrada, era abbastanza faticoso a causa del suo peso.
Occorrevano quattro persone per spostarla, una per ogni maniglia. Za Nuziata suocera di mio zio Francesco Propato, ha svolto per qualche anno questo tipo di lavoro itinerante, coadiuvata dai nipoti e da noi ragazzi. La macchina pulitrice acquistata alla fine degli anni 50 era stata fabbricata a Sassuolo dall’ Azienda Ballerini.
Questa informazione era incisa con caratteri dorati su una targhetta rossa avvitata su di un lato della tramoggia.
Alla fine degli anni 60 la Pisatura del grano subì una radicale trasformazione, i paricchi vennero sostituiti dalla Trebbia, una macchina agricola che “inghiottiva” le gregne e separava il chicco di grano dalla paglia e dalla pula. la paglia all’uscita dalla trebbia veniva pressata da un’altra macchina collegata ad un trattore e trasformata in ballette, che venivano accatastate nella pagghiera. Il grano era accumulato nei sacchi e scaricato, in seguito, nei cascioni
La trebbia non aveva un suo motore, era azionata da una puleggia collegata, tramite una cinghia , al motore del trattore. Le gregne sollevate con una forca sulla spianata di legna della trebbia, venivano sfasciate con un coltello da noi ragazzi e porte al macchinista , che inseriva rapidamente le spighe, nel battitore, a forma di feritoia, della trebbia.
La mietitrebbia che svolge tutte le fasi della lavorazione del grano in automatico, dalla mietitura, alla trebbiatura, arrivò nelle nostre contrade, negli anni 70, quando ormai le campagne erano state abbandonate dalla nostra gente, ed i pastori avevano svenduto le loro greggi. Tutta questa enorme forza lavorativa che era stata costretta ad emigrare nelle regioni del Nord Italia, in Svizzera, in Germania, in America, ha privato la nostra terra delle energie necessarie per una rinascita economica, civile e culturale.
Il Sud, ogni giorno che passa, cresce in noi, nella nostra mente, nel nostro corpo, nelle nostre abitudini, nei nostri figli. La nostra è una deriva interna silenziosa, quasi intima, ma inesorabile. Il “Nulla” protagonista della “Storia Infinita” avanza nelle nostre terre ed impoverisce ogni giorno la nostra storia di brava gente e ci priva della volontà di ripartire, di ricominciare. Oggi, 12 Febbraio 2015, nelle contrade dell’alta Valle del Frido, perfino, giocare una partita di tressette a quattro, diventa difficile, se non impossibile. Si può camminare per ore, nelle nostre stradine silenziose, senza mai incontrare un amico, un paesano
[1] Grosso ariete munito di campanaccio che camminava davanti al gregge, e portato per il collare dal pastore
[2] Lungo e pesante giaccone, alcune volte smanicato, fatto con il pellame della pecora o della capra. Si allacciava con lacci di fortuna o con ferro filato sottile, non aveva bottoni.
[3] gambaletti, fatti con pelle di pecora o di capra ,oppure di fasce di stoffa, che riparavano dalla neve le gambe, presentavano una svasatura inferiore che ricopriva il forte delle scarpe.
[4] Robusto collare di legno che si chiudeva ad incastro attorno al collo dei bovini, degli ovini, dei caprini, e da cui pendeva il campanaccio.
[5] Bovaro
[6] Giogo, barra di legno che veniva applicata al collo dei bovini per sottoporli in coppia al lavoro
[7] Un’asta di legno lunga 2-3 m che collegava l’aratro al giogo, a cui veniva legata con robuste corde vegetali di grampuddine (liane)
[8] L’aratro era formato dalla stiva che era il manico impugnato per la guida, dal giogo, dal Timone o Bure che era la lunga stanga a cui si attaccava il giogo, dal vomere, dal versoio che erano le alette che rivoltano orizzontalmente la zolla, dal coltro che era la lama che tagliava verticalmente la zolla
[9] Puntone o Viriga
[10] Tovaglia da tavolo
[11] Lo spunto acetico o acescenza è dato di batteri acetici che si sviluppano in ambiente con ossigeno
[12] Lo spunto lattico o agrodolce è una malattia del vino dato da batteri anaerobi
[13] La fioretta, malattia fungina dei vini poco alcolici, che determina la formazione in superficie di un panno biancastro, che scuotendo il vino, si rompe in piccoli frammenti simili a fiori.
[14] Campo di grano
[15] Mondare il grano dalle erbacce.
[16] Cipolline selvatiche chiamate Lampascioni in Abruzzo ed in Puglia
[17] Contraccambio di favori
[18] Massaio
[19] Grembiule di stoffa o di plastica, spesso ricavato dai sacchi sintetici del concime, indossato sui pantaloni per proteggerli
[20] Lunghi ditali di canna con taglio prossimale a fischietto che si indossavano sulle ultime due- tre dita della mano sx impiegata a sostenere u iermitu
[21] Covone Dal latino gremia, ciò che si prende in una bracciata. la Bica è un cumulo di covoni di cereali
[22] Bica, cumulo di covoni di cereali
[23] Campo con le stoppie dove si va a spigolare
[24] Aia, area di terreno sodo spianato o pavimentato, contigua ai fabbricati rurali, destinata ad accogliere i prodotti da essiccare, da trebbiare, cernere e sim. Era esposta ai quattro venti
[24] Sono coppi di argilla utilizzati per la copertura del tetto
[25] Leggeri e robusti cofani usati per il trasporto delle gregne, costruiti con rami di salice selvatico che si intrecciavano tra di loro a maglie molto larghe
[26] Rametti di ginestra
[27] trebbiatura
[28] Guanciale
[29] Capocollo
[30] soppressate
[31] Minestra di peperoni , pomodori e uova strapazzate
[32] I grumi sono susine dalla forma e grandezza di una grossa ciliegia, di colorito violaceo, bluastro, con venature rossiccie, i piruni sono susine dalla forma oblunga,dalla grandezza di un’albicocca, di colorito giallo
[33] Coppia, pariglia di buoi aggiogati per il tiro dell’aratro, della pietra da trebbiatura, per i tronchi di legna, per il carro..
[34] Cuticola esterna libera o parzialmente adesa al chicco di grano, frammista a minuti residui di paglia. Veniva data alle galline ed ai porci
[35] Veccia
[36] Lolium rigidum Gaud. Nome volgare: loglio, foglietto, sciuglio somiglia al grano, lo stelo è più alto ed i chicchi rugosi sono più lunghi di quelli del grano. E’ una graminacea che può infestare tutte le colture orticole, a ciclo Autunno Primavera, ogni pianta produce in media 1000 semi.
[37] Semi piccoli, bianchi e puzzolenti
[38] E’ una malattia fungina da Tilletia Tritici, definita la carie del frumento. Il fungo si sviluppa all’interno del seme che diventa nero, ripieno di una polvere nerastra ed untuosa che puzza di pesce putrido. Le piante infette si distinguono perché rimangono erette, infatti essendo vuote diventano più leggere
[39] Denominato impropriamente frantoio, in effetti era una macchina pulitrice del grano, uno svecciatoio