La LISSIA (Liscìvia)

Il termine deriva dal latino Lixivia (Lix genitivo Licis), che significa acqua mista a cenere e si riconnette a Lixa antico nome dell’acqua, che ha la stessa radice di Liquidus

Era il detersivo e lo sbiancante di un tempo, presente ed utilizzato fino ai primi anni 60, quando il bucato lo si otteneva con la cenere del legno, setacciata e sciolta nell’acqua bollente per 2-3 ore. La cenere e l’acqua erano mescolate in un rapporto volumetrico di 1 a 5, un volume di cenere era sciolto in cinque volumi di acqua

A bollitura ultimata la soluzione veniva decantata, raffreddata e filtrata con un panno di cotone; si otteneva un liquido più o meno limpido, che si poteva conservare per giorni o mesi.

I panni sporchi venivano immersi per una notte nell’acqua filtrata e separata dalla cenere, che costituiva il residuo solido della soluzione, la parte liquida restante si conservava in recipienti resistenti alla corrosione, e veniva riutilizzata per fare altro bucato.

I panni venivano ben detersi, imbiancati, disinfettati e conservavano un buon profumo di bucato fresco. Il risciacquo avveniva, spesso nell’acqua corrente del fiume Frido o in quella, più calda del torrente Fauciglio.

Il residuo solido, costituito dalla cenere bollita, aveva un aspetto cremoso, conservava un debole potere detergente di cui si faceva uso per lavare i piatti, sgrassare i tegami o altro.

La liscivia aveva un potere detergente, sbiancante e corrosivo perchè era una soluzione alcalina di idrati e di carbonati. Ad elevata diluizione in acqua era usata anche per la pulizia del corpo.

Nella contrada Conocchielle ed in quelle viciniori dell’alta valle del Frido, le varie fasi del bucato con la Lissia differivano da quelle sopraddette.

La preparazione della lissia avveniva sempre con cenere setacciata e bollita in acqua, ma i panni erano prima insaponati e sciacquati e poi pressati all’interno di una tinozza di legno (garavieddo), dopo averli avvolti con 2-3 vecchie lenzuola. Un altro strato, il più superficiale, detto Cinniraturo, fatto da strofinacci e da un sacco di iuta, completava l’isolamento della biancheria dal contatto diretto con la cenere.

La fase successiva consisteva nel versare la soluzione di cenere ed acqua nella tinozza, direttamente sul cinniraturo, che bloccava il passaggio della cenere e permetteva solo all’acqua alcalina, carica di idrati e carbonati di venire a contatto con la biancheria.

La permanenza dei panni nella tinozza, a contatto con la lissia, durava una intera nottata, al mattino si rimuoveva il cinniraturo carico di cenere e si andava al fiume a sciacquare la biancheria.

la parte liquida della lissia che filtrava lentamente all’esterno attraverso un foro presente nel fondo della tinozza, veniva chiamata Lissiazzo , era raccolta, al mattino, in un recipiente ed utilizzata per lavare i panni neri, gli stracci, le pentole, i piatti, i bicchieri ed altro.

Il lissiazzo era un liquido quasi trasparente, di colorito giallastro scuro, simile al tè, e poteva essere anche conservato.

La lissia, in prativa veniva usata specialmente come sbiancante, oltre che come detersivo, era la candeggina naturale a portata di tutti.

Riferisce mia madre, Faillace Mariangela, che il candeggio dei panni con la lissia richiedeva impegno e mestiere, non tutti ottenevano un buon bucato, capitava non di rado di vedere panni stesi ad asciugare, specialmente le lenzuola, con macchie che riproducevano le forme del corpo della persona che le aveva utilizzate. Evidentemente il ricambio della biancheria avveniva di rado e la lissia non aveva sortito il candeggio sperato.