Mariu “Crocchiu” Palagano u caudararo

Antefatto:

Mario Palagano, detto Mariu “Crocchiu” u Caudararo, discendeva da una nobile e colta famiglia di Viggianello, a cui apparteneva anche Don Domenico Palagano, minorato psichico.
Abitava a Pedali in via Costa Monaci, sposato con una sorella di za Laura, ha avuto sette figlie, di cui una si chiama Anita; tre sue figlie si sposarono nello stesso giorno. L’ottavo ed ultimo figlio venne chiamato Ottavio, che da giovane, mi raccontava Maria Peluso , suonava la chitarra. Mariu Crocchiu riposa nel cimitero di Doria (CS), paesino in provincia di Cosenza, dove abitano le figlie

IL FATTO:
Mariu “Crocchiu” era un lattoniere ed un abile stagnino , stagnava, costruiva recipienti di latta, di rame e lavorava anche il ferro. Nei mesi estivi abitava quasi ininterrottamente nella nostra contrada, dove lo stagnino traeva guadagni dalla famiglia contadina , ma specialmente dalla presenza di molti pastori e bovari che per l’alpeggio, con le loro mandrie, facevano ritorno in montagna. Riceveva la collaborazione di noi ragazzi per raccogliere la legna per la fucina, e per girare la manovella del mantice che spingeva aria sul fuoco e ne ravvivava la fiamma, necessaria per stagnare le caudare[1], i caudarieddi delle massaie, il caccuo[2] e la sicchia[3] dei pastori.

Batteva sull’incudine, con un martello, il ferro arroventato, il suono ritmico del martello invadeva l’aria rarefatta dell’estate ed accompagnava dolcemente le nostre giornate.

Lavorava anche l’oro vecchio e lo forgiava con maestria ricavandone anelli ben rifiniti e di valore. L’oro veniva sciolto in un crogiuolo sopra un lume a petrolio, la cui fiammella ravvivata dall’aria di un soffietto, diventava bianca come quella ossidrica.

A richiesta o spontaneamente , intonava, di tanto in tanto, la sua canzone preferita: “ con i Turchi come è naturale dovevano avere aperto il canale, ma dopo di aver commesso un abuso invece di aperto lo tenevano chiuso”.

Ci faceva dono di bellissimi fischietti di latta (Riscignuoli), che costruiva per noi con maestria, in cambio dei nostri servizi. Era, spesso, in compagnia della moglie, che lo seguiva e lo aiutava nella sua attività itinerante.

Era un tipo snello, alto, con la barba incolta, trascurato nel vestire e nell’igiene. Aveva le mani nere dalla sporcizia e dal carbone ed il volto macchiato dal sudore stantio e dal fumo.

Quando lavorava, sedeva per terra con la schiena curvata e le gambe incrociate. Si ubriacava frequentemente, e perdeva ogni decoro nell’aspetto e negli atteggiamenti: pisciava per strada, i pantaloni sudici con la brachetta aperta e con pochi bottoni, erano bagnati fin sopra la coscia dall’urina ed emettevano un fetore d’ammoniaca, esaltato dalla calura estiva, che attraeva mosche e vespe.

Così conciato, in stato comatoso, si addormentava sotto il sole, o all’ombra di un albero, per ore ed ore, circondato da residui di cibo e dalle formiche.Il cane Max di Sciuscko era un suo accompagnatore abituale e spesso rubava il formaggio che Mastu Mario barattava con i pastori, in cambio del suo lavoro. Il baratto avveniva non solo con il formaggio, ma anche con le cotiche del maiale, con il pane casereccio ed altro.

Zia Matilde, allora bambina, Za Maria a Chidaia, il famelico Max, erano a pranzo, suoi ospiti graditi. Il fisico, sebbene degradato dall’alcol e dall’incuria, faceva trasparire segni di una bellezza prematuramente scomparsa.

L’animo buono emergeva con forza tra tanti contrasti, e rendeva nobile il suo modo di agire. Era mite e socievole, sorrideva a tutti, specialmente ai bambini che lenivano con la loro allegria i tanti momenti tristi di una sua vita anonima e difficile, affogata nell’alcol.

A sera, quando il sole al tramonto diventava rosso, e con il suo debole chiarore lambiva cose e case, lui e la moglie, raccoglievano barcollando le povere masserizie e come ombre, si accomodavano in un pagliaio per trascorrervi la notte.

Venivano spesso ospitati nella stalla di zio Rocco La Camera “u cantiniero” , dove di notte riposavano su una “cascia”, oppure nel pagliaio di Ciminelli Agostino in via Rauta.

Non andava molto d’accordo con la moglie, a seguito di una lite, si diceva, che fosse finito anche davanti al giudice. Il suo humour, la sua arguta intelligenza, sarebbero venuti fuori, alla grande, nel corso di quel dibattimento:

Signor Giudice lei offende oltremodo la mia intelligenza, questa donna mi ha messo le corna perfino con le pulci di casa mia”, così avrebbe risposto al giudice che lo avrebbe interrogato sulle cause dei frequenti dissapori che aveva con la moglie;

Ed in riferimento allo stato di povertà in cui viveva, recitiva con ironia: “ ‘a casa mmeia iè ‘na casa ricca, ‘nu ciucciu ch’i cancieddi a supa ci po’ girà e nun appingia da nisciuna parte”.

La sua intelligenza, la sua nobiltà d’anino, il suo humor traevano forse origini anche nelle sue radici e nel suo cognome, Palagano, lo stesso cognome di don Domenico[4] .

Alcuni semplici ed illetterati versi che si ricordano e si recitano parlando ogni volta di questo stagnino, lo sottraggono all’anonimato, all’oblio del tempo e ce lo fanno tuttora amare come una persona a noi cara: “Mariu crocchiu ‘u caudararo notte e ghiurn’ fa dinaro, ha finit’ i carivuni, mitt’ i mani ‘ndi fracchittuni (tasche)

[1] Recipienti in rame da cucina, di varia grandezza, a forma cilindrica, con fondo ovale, simili al paiolo, con il manico di ferro arcato e mobile, che si appende al gancio della catena del camino, detta Camastra

[2] Recipienti alti di rame a sezione cilindrica, con fondo ovale e con strozzatura centrale a forma di clessidra, utilizzati per lavorare il latte sul fuoco

[3] Recipienti di rame o di zinco a forma cilindrica, con bordo superiore inclinato a fischietto, con manico mobile, arcato, erano usati nella mungitura delle pecore e delle capre

[4] Il padre di don Domenico, Don Marco Palagano, era un noto avvocato, e morì di infarto, la mamma si chiamava donna Filomena ed era cognata (da parte della prima moglie) di Caporale, aveva una sorella, morta in giovane età, che si chiamava Immacolata